NOI INQUINIAMO CIÒ CHE MANGEREMO E MANGIAMO CIÒ CHE ABBIAMO INQUINATO

Durante la preparazione di un pranzo, aprendo una bellissima spigola e pulendole lo stomaco mi sono ritrovato tra le mani qualcosa che non era un mollusco o un residuo di un crostaceo, sue prede preferite, si trattava di un minuscolo pezzetto di plastica. Infatti crostacei e molluschi in acqua possono essere facilmente scambiati dai pesci predatori con i frammenti di plastica e dunque ingeriti.

E non poteva venirmi in mente un aforisma più cogente: “Noi inquiniamo ciò che mangeremo e mangiamo ciò che abbiamo inquinato”

Secondo uno Studio condotto dall’ISPRA nel 2019 nel Mediterraneo ci sono almeno 116 specie diverse che hanno ingerito plastica (l’ingestione è il principale effetto noto della plastica in mare); il 59% di queste sono pesci ossei. inclusi in questa percentuale anche quelli di interesse commerciale come sardine, triglie, orate, merluzzi, acciughe, tonni, scampi, gamberi rossi; il restante 41% è costituito da altri animali marini come mammiferi, crostacei, molluschi, meduse, tartarughe, uccelli.

Senza contare che i batteri trasportati dai residui di buste e bottigliette di plastica finiscono nel pesce e potrebbero persino causare malattie negli stessi pesci.

Tanto per dare l’idea di quanto le microplastiche si trovino ovunque negli oceani, cito uno studio dal titolo “First evidence of microplastics ingestion in benthic amphipods from Svalbard” pubblicato sulla rivista “Environmental Research”  condotto da ricercatori dell’Enea, dell’Università La Sapienza e del CNR, che ha rinvenuto frammenti di microplastiche anche in un piccolo crostaceo marino, l’anfipode ‘Gammarus setosus’, molto diffuso nel mar Glaciale Artico, preda di svariate varietà di pesci ed uccelli.

E se non bastasse, l’esploratore Richard Garriott a bordo di un sottomarino a due posti, ha trovato, ad 11 mila metri sott’acqua, nel famoso Grand Canyon del mare, la Fossa delle Marianne, tracce di microplastiche sia nei campioni acqua che in alcuni anfipodi (servizio RAI TG1 del 26 marzo 2021 ore 20)

Se dagli studi emergono gli effetti della plastica sui pesci, va detto che non è stato (per ora) rilevato l’effetto tossicologico del trasferimento delle microplastiche fino all’uomo, ma non può non destare allarme che le microplastiche entrino comunque nella catena alimentare di uomini ed animali.

Ciò che mi sento di consigliare, a chi intende cucinare pesce, è di farlo tranquillamente e senza timori, prendendosi però cura di pulirlo, rimuovendo le viscere e controllando eventuali residui tra la gola e la trachea oltre ad assicurarsi, se si intende mangiarlo crudo, che sia stato abbattuto di temperatura al fine di eliminare pericolosi batteri, come l’anisakis.

Prendiamo ad esempio uno dei crostacei più comuni sulle nostre tavole: il gambero. Premesso che, secondo quanto riportato da una ricerca dell’Università Autonoma di Barcellona dell’agosto 2020, cambiando spesso l’esoscheletro questo pesce riesce ad eliminare la plastica che lo contamina, è bene non mangiarne la testa, visto che li si trova buona parte del suo stomaco, nel quale se contaminato si formano minuscole palline di plastica e va eliminato anche l’intestino che invece si trova nel “corpo” del gambero stesso. Lo riconosciamo in quanto è un filamento nero che attraversa la polpa bianca (nella foto) e che può essere tolto, una volta aperto il gambero, con un semplice stecchino.

Ed ora, tolta testa ed intestino, il nostro delizioso gambero è pronto per essere consumato secondo la ricetta che più ci aggrada.

 

a cura di Chef Alessio Marchetti

consulente UNIFUNVIC Europa per la cultura enogastronomica